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Caso Morosini, i giudici: “I medici dovevano usare il defibrillatore, lo avrebbero potuto salvare”

Caso Morosini, i giudici: “I medici dovevano usare il defibrillatore, lo avrebbero potuto salvare”

PESCARA, 14 dicembre – Piermario Morosini si sarebbe potuto salvare, con una probabilità compresa tra il 60 e il 70 percento, se il 14 aprile del 2012, sul terreno di gioco dello stadio Adriatico di Pescara, fosse stato utilizzato il defibrillatore. “Tutti i medici che hanno collaborato e si sono avvicendati nei primi soccorsi – è scritto nelle motivazioni della sentenza – erano tenuti all’uso del defibrillatore”. Attorno a queste argomentazioni ruotano le 40 pagine che spiegano la sentenza di condanna del medico del 118 Vito Molfese (1 anno), del medico sociale del Livorno Manlio Porcellini (8 mesi) e del medico del Pescara Ernesto Sabatini (8 mesi), che in primo grado sono stati riconosciuti responsabili della condotta colposa che ha portato alla morte del calciatore del Livorno, accasciatosi a terra al 29′ del primo tempo in seguito ad un malore, mentre era in corso la gara del campionato di serie B tra la squadra di casa e la formazione toscana.

Quanto alle cause del decesso, il giudice del tribunale monocratico di Pescara, Laura D’Arcangelo, ha ritenuto condivisibili le conclusioni dei periti nominati in sede di incidente probatorio, risultate peraltro conformi a quelle dei consulenti del pm e della parte civile, secondo le quali “Morosini è stato colpito da fibrillazione ventricolare indotta dalla cardiopatia aritmogena da cui era affetto e dallo sforzo fisico intenso”. Argomentazioni che – secondo il giudice – “non sono state efficacemente confutate da quelle dei consulenti degli imputati”. In particolare è stato escluso che Morosini sia stato colto da una possibile asistolia, sulla quale non sarebbe stato possibile intervenire efficacemente con il defibrillatore.

“I protocolli per gli interventi di emergenza – si legge ancora nelle motivazioni –  pur prevedendo diverse fasi indipendenti, presentano come momento imprescindibile quello della defibrillazione”. Una volta stabilito che il defibrillatore era presente sul campo, che era funzionante e che andava utilizzato tempestivamente, il giudice si è occupato di individuare le responsabilità di chi avrebbe dovuto utilizzarlo. “Poiché il Dae è uno strumento di facilissimo utilizzo – rimarca D’Arcangelo – è del tutto evidente come il suo utilizzo debba essere parte del necessario bagaglio professionale di qualsiasi medico, anche non specialista”.

Secondo il giudice “non può sorgere alcun dubbio sull’esigibilità della condotta doverosa da parte di tutti gli imputati”, i quali “avrebbero dovuto chiedere che fosse messo nella loro disponibilità un Dae” e “non potevano non avere visto che il Silvestre aveva prontamente predisposto il Dae accanto alla testa dell’infortunato”. Dunque, come sottolinea a più riprese D’Arcangelo, “Porcellini, Sabatini e Molfese, intervenuti in soccorso di Morosini nei primi minuti dopo il malore, avrebbero dovuto, una volta effettuate le manovre prodromiche, procedere alla defibrillazione”. Il giudice inoltre esclude “qualsiasi incidenza”, in termini di esonero delle responsabilità degli altri medici, legata all’eventuale attribuzione del ruolo di leader ad uno dei sanitari, in virtù del fatto che “l’utilizzo del defibrillatore in tale frangente costituisce una procedura codificata e non connessa ad alti livelli di specializzazione”.

Un aspetto che non impedisce però al tribunale di delineare una graduazione delle responsabilità sotto il profilo della colpa. Dopo avere evidenziato come dalle linee guida “non sia ricavabile una regola precisa e consolidata che codifichi l’attribuzione dei ruoli nell’esecuzione di una rianimazione cardiopolmonare”, il giudice rileva che, “considerate le competenze professionali dei sanitari intervenuti nelle operazioni di soccorso, deve ritenersi, in conformità con le conclusioni dei periti, che il referente del gruppo, sia pure spontaneamente formatosi, fosse la persona più esperta nella specifica attività in corso” e “poiché nel caso di specie il soggetto più esperto era sicuramente Molfese, non v’è dubbio che il ruolo di leader avrebbe dovuto essere assunto dal predetto”.

Il giudice inoltre rileva che Molfese “era a conoscenza che il mezzo di soccorso a bordo del quale è arrivato sul campo di gioco era dotato di un defirillatore” e che quello in dotazione alla Misericordia era già stato collocato accanto a Morosini, ed evidenzia come “Molfese, constatato, anche assumendo le dovute informazioni dai soggetti che stavano operando, che fino al momento del suo arrivo non era stata operata la defibrillazione, avrebbe dovuto attivarsi per effettuare tale indispensabile manovra di emergenza in concomitanza con il massaggio cardiaco e la ventilazione già in atto”.

D’Arcangelo poi smonta la tesi difensiva secondo la quale il 118 doveva, in quella sede, solo garantire il soccorso di emergenza agli spettatori: “Il dato di fatto incontrovertibile è che Molfese – doverosamente, a parere del tribunale – è intervenuto, instaurando così quel rapporto terapeutico che è di per sé produttivo dell’instaurazione della posizione di garanzia”. Per quanto riguarda la convenzione stipulata dalla Asl di Pescara sulla prestazione di assistenza sanitaria di emergenza ai giocatori e alla tifoseria, il giudice sottolinea che pur essendo stata protocollata in data successiva ai fatti per cui si procede e “anche qualora i termini non fossero stati portati a conoscenza degli operatori del 118, è difficilmente contestabile che rientri tra i compiti del servizio sanitario nazionale quello di garantire il livello assistenziale di emergenza sanitaria con carattere di uniformità in tutto il territorio nazionale”. La gestione dell’emergenza sul territorio – afferma dunque il giudice – “non può che riguardare qualsiasi soggetto coinvolto e, quindi, a prescindere dall’esistenza di una specifica convenzione, anche i giocatori in campo nel corso di una manifestazione sportiva”.

Infine D’Arcangelo affronta il nodo del nesso di causalità tra le condotte colpose dei medici e il decesso di Morosini, affrontato in sede di dibattimento a colpi di perizie e pareri degli esperti. “Tutti gli elementi, valutati complessivamente, consentono di ritenere che le probabilità di ripresa del ritmo cardiaco e quindi di scongiurare la morte in quel momento e con quelle modalità – è scritto nelle motivazioni – sarebbero quantificabili, nei primi tre minuti dal collasso, qualora fosse stato utilizzato il Dae, intorno al 60/70 per cento”. Una valutazione compiuta soprattutto alla luce del fatto che “Morosini era un soggetto giovane (26 anni al momento del decesso), in condizioni fisiche che gli avevano consentito di esercitare per anni attività sportiva a livello professionale, e la cardiopatia aritmogena dalla quale era affetto, del tutto asintomatica fino all’insorgenza della fibrillazione ventricolare, interessava un’area del muscolo cardiaco molto limitata”. E poiché tali probabilità di ripresa sono quantificabili, nella percentuale indicata, con valori decrescenti, con riferimento ai primi tre minuti, “ne consegue che tutti i sanitari imputati nel giudizio, i quali in tale lasso di tempo si sono avvicendati nel prestare i primi soccorsi al Morosini, avrebbero potuto, tendendo la condotta doverosa, interrompere il decorso della malattia e impedire l’evento”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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