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Gli insulti razzisti a Muntari e l’ipocrisia del calcio italiano

Gli insulti razzisti a Muntari e l’ipocrisia del calcio italiano

PESCARA, 1 maggio 2017 – Il calcio italiano è la fiera dell’ipocrisia. Un’ipocrisia alla quale, purtroppo, siamo ormai assuefatti e rispetto alla quale sembriamo incapaci di compiere anche quel minimo e necessario scatto di indignazione. Sulley Muntari, centrocampista ghanese in forza al Pescara, ieri è stato insultato da alcuni tifosi del Cagliari, durante una partita del campionato di serie A, per il colore della sua pelle. Non importa se ad insultarlo sono state due, dieci o cinquemila persone. Insultare qualcuno perchè ha la pelle nera, nel 2017, è barbaro, incivile, retrogrado e fuori dalla storia. L’audio dei filmati televisivi non è riuscito a carpire cosa gli è stato urlato né il momento esatto in cui il giocatore è stato insultato, ma si vede chiaramente Muntari imbufalito pochi secondi dopo essere finito a contatto con la recinzione che separa il campo dagli spalti. Subito dopo l’arbitro richiama il giocatore e Muntari, per tutta risposta, inizia a sbraitare, invocando la sospensione della partita. Che non arriva. Perchè l’arbitro Minelli, che avrebbe il potere di interrompere la gara a causa degli insulti a sfondo razziale, come in passato è già accaduto, non ha la personalità per assumere una decisione tanto drastica quanto doverosa. The show must go on e in fondo Muntari, che pure ha vestito maglie di squadre blasonate, oggi è “soltanto” un giocatore del Pescara. Se fosse accaduto ad un giocatore di Juventus, Milan o Inter, con ogni probabilità, il caso avrebbe assunto ben altro rilievo.

Ma torniamo ai minuti finali di Cagliari-Pescara. Muntari per lunghi attimi dà in escandescenza, si avvicina anche al quarto uomo, poi torna dalle parti di Minelli, che mentre dagli spalti piovono dei “buuuuu” inequivocabilmente razzisti, carpiti anche dai microfoni delle televisioni, tutto quello che sa fare è sventolare un cartellino giallo in faccia a Muntari. Il calciatore a quel punto si auto-espelle. Abbandona il campo e se ne torna negli spogliatoi. Come a dire: “Tenetevi questo schifo di calcio e giocateci voi per questa gentaglia immonda”. Ipocrita l’arbitro, ipocriti i compagni di squadra e ipocriti i giocatori avversari, che hanno fatto finta di niente e sono rimasti a guardare. Ipocrita anche la maggioranza del pubblico, che magari non condivide ma lascia fare. Ipocrita la società del Cagliari Calcio, che tramite il vice presidente Filucchi afferma di “condannare fermamente ogni forma di razzismo”, ma che asserisce di non avere udito alcun coro razzista e dunque liquida la vicenda concludendo che “la tifoseria del Cagliari non è razzista”. Come se un giocatore come Muntari, tanto ruvido nel gioco quanto corretto e leale in mezzo al campo, avesse dato vita ad una sceneggiata decidendo improvvisamente di vestire i panni del tarantolato. Come se bastasse affermare qualcosa per esorcizzare il suo contrario. Come se alla fine, l’unica cosa che conta, come troppo spesso accade in Italia, fosse lisciare il pelo alla propria gente, anche quando si rende responsabile di azioni riprovevoli e ingiustificabili.

Muntari, uno che il mondo l’ha girato, ha messo a nudo i ritardi culturali dell’Italia rispetto al resto del mondo occidentale. Oggi sarebbe impensabile ascoltare dei “buuuu” razzisti in uno stadio inglese, francese, tedesco o spagnolo. E se qualcuno ci provasse, sarebbe immediatamente individuato e punito, mentre in campo si assisterebbe ad una levata di scudi da parte di tutti i protagonisti, con tanto di scuse ufficiali da parte della società indirettamente responsabile di essere sostenuta da tifosi così ottusi. In Italia, invece, Muntari ha lanciato un segnale e chi gli stava intorno ha voltato lo sguardo dall’altra parte. Diventando complice. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, come sempre, è stato Zdenek  Zeman, che nel post-partita ha affermato: “Parliamo tanto di razzismo e poi quando succedono certe cose ci si passa sopra”. Parole semplici e chiare, pronunciate con il candore di un bambino che osserva la realtà e la descrive esattamente per quella che è. Una brutta realtà, un brutto calcio, la fiera dell’ipocrisia.

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